Torinese, 60 anni, vice direttore del quotidiano La Stampa dal 1968, viene colpito il 16 novembre 1977 con quattro colpi di pistola al volto da due killer delle Brigate Rosse nell’androne del palazzo in cui abitava. Muore dopo tredici giorni di agonia. È la prima volta in Italia che i terroristi della stella a cinque punte sparano a un giornalista con la chiara intenzione di uccidere. L’attentato – che fa seguito alla morte dei componenti della banda Baader – Meinhof nel carcere tedesco di Stammhein – era nell’aria. Casalegno, dopo una serie di minacce e una bomba al giornale, veniva solitamente accompagnato dalla scorta che era stata assegnata al direttore Arrigo Levi, con la sua vettura che procedeva tra l’auto blindata e la seconda macchina della Digos. Quel giorno però aveva dovuto andare dal dentista e poi aveva scelto di trattenersi più a lungo per lavorare alla terza pagina. Era dunque tornato da solo a casa, e. qui aveva trovato i suoi assassini. Da molto tempo Carlo Casalegno era pedinato da Patrizio Peci, Vincenzo Acella, Piero Panciarelli e Raffaele Fiore. A sparare è stato quest’ultimo, con una Nagant 7,62 usata per uccidere anche Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino. “Abbiamo giustiziato un servo dello Stato”, rivendicarono i terroristi richiamando la sua rubrica “Nostro Stato” sul giornale. A Casalegno il 21 gennaio 2011 è stata conferita la Medaglia d’oro al valore civile alla memoria.
(Fonte: Unci 2008 con il contributo dei familiari e di Carlo Sinigaglia, presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Torino)
(Aggiornamento di Luciana Borsatti – 3 maggio 2020)
- 1977 – A decretare ed eseguire l’uccisione di Carlo Casalegno è un gruppo di fuoco della colonna torinese delle Brigate Rosse formato da Raffaele Fiore, Patrizio Peci, Piero Panciarelli e Vincenzo Acella. A sparare al giornalista, nell’androne del suo palazzo dove tornava per il pranzo, c’è Raffaele Fiore che lo stava aspettando insieme a Piero Panciarelli, mentre Peci sorvegliava la zona armato di mitra e Acella era al volante dell’auto pronta per la fuga. All’arrivo di Casalegno, Fiore lo chiama per farlo girare e non colpirlo alla schiena: lui si volta ed è raggiunto da quattro colpi al volto. I due brigatisti fuggono convinti di avere ucciso il giornalista che invece, soccorso dalla moglie Dedi Andreis, è ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale Le Molinette, dove muore 13 giorni dopo. Oltre alla moglie, lascia il figlio Andrea, 33 anni, anche lui giornalista.
- Il giorno successivo all’attentato migliaia di cittadini presero parte ad una manifestazione contro il terrorismo a piazza San Carlo, mentre minore partecipazione si registrò allo sciopero subito indetto alla Fiat.
- Ai funerali, il primo dicembre, parteciparono il presidente della Fiat Gianni Agnelli e, fra i politici, il segretario del Psi Bettino Craxi, il leader del Pri Giovanni Spadolini e l’allora ministro Carlo Donat-Cattin.
- 1983 – L’omicidio Casalegno viene inserito in un maxi processo contro la colonna piemontese delle Br che si svolge in estate davanti alla Corte d’Assise di Torino: ai 62 imputati sono contestati sette agguati mortali con dieci vittime, 17 tentativi di omicidio e ferimenti alle gambe, sei irruzioni o attacchi a sedi di partito e caserme, due tentativi di stragi, tre sequestri di persona, compiuti nell’arco di otto anni, fino alla primavera del 1980.
- Nel corso del processo, i brigatisti dicono che avevano deciso di uccidere Casalegno invece di sparargli alle gambe (come avevano fatto con Indro Montanelli), in seguito soprattutto ad un suo recente articolo intitolato “Terrorismo e chiusura dei covi”, in cui sosteneva fra l’altro che contro di loro non occorrevano nuove leggi speciali, bastava applicare quelle che c’erano. In aula il brigatista pentito Patrizio Peci riferisce, citato dall’Ansa : “Da tempo lo tenevamo d’occhio. Quando partì la campagna contro i giornalisti, il fronte di massa propose di ‘azzopparlo’. Letti i suoi articoli sulla fine della Baader-Meinhof in Germania – aggiunge, con riferimento alla morte in carcere di alcuni esponenti di quel gruppo terroristico nelle precedenti settimane – in direzione di colonna decidemmo di ucciderlo”. Ma le motivazioni più proprie – si legge sul sito della Associazione italiana vittime del terrorismo – vanno ricercate “nell’intransigente orientamento del giornale contro il terrorismo, orientamento che aveva nel vicedirettore il più strenuo sostenitore. Casalegno, pur rifiutando sempre decisamente qualsiasi forma di lotta armata clandestina, era un coerente difensore della legalità”.
- Il processo si conclude il 29 luglio con la condanna a 12 ergastoli e un totale di 290 anni di reclusione. Carcere a vita per Raffaele Fiore e Vincenzo Acella, e otto anni per il pentito Peci. Intanto, nel 1980, Panciarelli era stato ucciso in un’operazione dei carabinieri.
- Per responsabilità “morale” anche nell’omicidio di Casalegno, e di altre quattro vittime della colonna piemontese delle BR, viene condannato poco dopo, il 19 dicembre 1983, anche il leader storico della organizzazione, Prospero Gallinari, in un processo svoltosi sempre a Torino: è la sua terza condanna all’ergastolo, dopo quelle per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e per il concorso in sei assassinii a Genova.
- 1985 – Il 13 aprile la Corte d’assise d’Appello di Torino conferma gli ergastoli per l’omicidio Casalegno e gli altri delitti della colonna torinese.
- 1986 – Il 17 febbraio i giudici della prima sezione penale della Corte di Cassazione, presieduti da Corrado Carnevale, confermano la sentenza d’appello rigettando o dichiarando inammissibili i ricorsi presentati da 39 imputati.