Per chiudere la Terza Pagina rinunciò a farsi accompagnare sull’auto blindata del direttore Arrigo Levi e tornò a casa senza scorta
Il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno non era scortato neppure nel 1977, sebbene in pericolo. “Carlo sei pazzo a venire qui. Vuoi farti ammazzare?”, l’aveva affrontato Giampaolo Pansa incontrandolo in settembre a Bologna dov’era andato per capire gli “autonomi” a congresso: studenti e operai, vogliamo tutto e lotta armata. Non erano scortati neppure i cronisti incaricati di seguire il processo di Torino che le Brigate rosse rifiutavano e rinviavano con minacce e attentati. Da giorni i loro articoli uscivano senza firma per non facilitare la scelta del prossimo bersaglio.
Il solo minacciato al quale la Questura aveva riconosciuto la scorta era il direttore Arrigo Levi. Subito fu lui a decidere che con gli agenti sarebbe andato due volte al giorno a prendere il vicedirettore politico a casa e a riaccompagnarlo. Un piccolo corteo: in testa una macchina della Digos, accodata la Fiat “130” blindata del direttore con l’autista – il signor Mina – armato, dietro la “125” blu di Casalegno, a chiudere la seconda macchina della Digos, anonima come la prima, tuttavia entrambe con vistose antenne che le rendevano riconoscibili. Piazza San Carlo 206 (Levi), Corso Re Umberto 54 (Casalegno), Via Marenco 32 (La Stampa) e ritornò, sempre cambiando itinerario.
Quel 16 novembre 1977 non andò così per un banale imprevisto: un mal di denti che indusse Casalegno a recarsi dal dentista. Ci andò di buonora per non mancare alla riunione di direzione. Prima, per consuetudine, parlava con me della Terza pagina. Ne ero stato nominato capo servizio, senza totalmente lasciare il settimanale Tuttolibri, che con Levi e Casalegno avevo fondato nell’autunno ’75 (era uscito sabato 1° novembre, quando Furio Colombo aveva incontrato Pasolini per l’intervista, l’ultima, entrata nella storia del giornalismo).
Alle 13 il direttore si affacciò nella stanza di Casalegno, ci trovò l’uno davanti all’altro, intenti a selezionare e a passare gli articoli scelti per l’elzeviro, la spalla e il taglio basso. All’appello abituale: “Su, Carlo, andiamo” e a un po’ di insistenze, Casalegno sorrise: “Lasciaci finire, Arrigo, non preoccuparti”. Andammo insieme verso la tipografia ad affidare quei pezzi al proto Stefano Mana e a prendere, scherzando con lui, “un caffè alla macchinetta”. Ripercorremmo con calma il lungo corridoio fino agli ascensori.
Erano le 13,31 minuti. Il professore andava a casa per un rapido pranzo: alle 15 era atteso in via Verdi alla Rai per essere intervistato su un tema che riguardava Israele. Venti minuti dopo quattro brigatisti gli sparavano quattro colpi di pistola Nagant alla testa, tutti andati a segno. Sapevano che era disarmato e senza scorta. Certi di averlo ucciso, comunicarono all’Ansa di aver “giustiziato un servo dello Stato”. (in realtà morì 13 giorni dopo, il 29 novembre all’ospedale Molinette, ndr). Per far capire che si vendicavano della sua rubrica settimanale “Il nostro Stato” e del forte commento “Chiudere i covi” da poco apparso sulla prima pagina della Stampa, in difesa delle leggi dello Stato e contro le leggi speciali che in tanti allora invocavano.
Le ultime ore di Carlo Casalegno in redazione fanno capire che per lui su ogni cosa avevano la precedenza il lavoro e La Stampa. Con il quotidiano aveva cominciato a collaborare nel 1947, quando lo dirigeva Filippo Burzio. Vi scrivevano ancora Alfredo Frassati, il fondatore, e Luigi Salvatorelli, che l’aveva sostituito come responsabile quando era stato nominato da Giolitti ambasciatore d’Italia a Berlino. Diventato direttore, Giulio De Benedetti affiancò loro il giurista e storico laico Alessandro Galante Garrone, il giurista cattolico Arturo Carlo Jemolo, lo scrittore Guido Piovene, lo storico del pensiero politico Luigi Firpo, il filosofo Nicola Abbagnano, lo storico e filosofo Alessandro Passerin d’Entrèves, Franco Antonicelli, saggista, poeta, editore (De Silva) che pubblicò «Se questo è un uomo» di Primo Levi. A loro più avanti si sarebbe aggiunto Massimo Mila, critico e storico della musica, traduttore del di Hermann Hesse, tra i fondatori della casa editrice Einaudi.
Unita nell’antifascismo, ma composita per età, caratteri, formazione, la schiera aveva un unico timone, il direttore. L’avanzare dell’età e il complicarsi del lavoro indussero De Benedetti a mettersi accanto qualcuno per il dialogo con i collaboratori e la cura dei loro interventi. Scelse Carlo Casalegno, redattore agli Esteri, non perché fosse il genero di Salvatorelli (detestava le raccomandazioni), ma perché era stato professore di lettere all’Istituto Superiore Palli di Casale Monferrato, correggeva con scrupolo gli articoli e piegava i vizi accademici alla chiarezza cioè al rispetto del lettore. Così Casalegno ritornò il «professor Casalegno» e cominciò a occuparsi anche della composita squadra dei giornalisti di spicco: Vittorio Gorresio, Enzo Biagi, Arturo Barone, Nicola Adelfi, Francesco Rosso, Antonio Barolini, Gigi Ghirotti, Igor Man, Alberto Ronchey. Il quale nel ’68, primo direttore scelto da Gianni Agnelli, lo nominò vicedirettore per la politica, la cultura e lo sport, che significava una fiducia totale. Fiducia assurta a rapporto fraterno con il successore di Ronchey, Arrigo Levi.
Casalegno aveva ereditato da De Benedetti il rigore e la caparbietà nell’ottenere il risultato voluto. Ma aveva affinato l’approccio, la capacità di convincere. Considerava indispensabile l’intesa con i collaboratori: per la prosa meditata d’un pezzo di Terza pagina quanto per la pronta esecuzione di un commento da buttar giù sul tamburo, da dettare un’ora dopo agli stenografi rispettando tema, misura e tempi. E coltivava quell’intesa con diligenza: Galante Garrone, Firpo e Passerin d’Entrèves portavano spesso di persona l’articolo e s’intrattenevano a lungo con il vicedirettore, Galante e Firpo parlando in piemontese di libri, di politica, di mondo, di una certa idea dell’Italia che li accomunava pur divergendo talvolta sulle soluzioni. Più tardi a quei colloqui si sarebbero abituati Giovanni Arpino e Primo Levi. Nessun collaboratore, nessun inviato sarebbe passato in via Marenco senza una visita in quella stanza: Mario Rigoni Stern o Lietta Tornabuoni, Natalia Ginzburg o Andrea Barbato, Giampaolo Pansa o Sergio Quinzio, Francesco Barone o Giovanni Spadolini, approdato nel 1972, appena lasciata la direzione del Corriere della Sera.
Tra loro non c’era Norberto Bobbio, nonostante gli inviti a collaborare reiterati dal suo amico Casalegno, autorizzati da Giulio De Benedetti, ribaditi personalmente da Ronchey e dopo di lui da Arrigo Levi. Bobbio aveva sempre risposto di no, di non poter “scrivere sul giornale della Fiat”. Ripeté quella frase un pomeriggio del ’75 nell’ufficio di Casalegno al quale era venuto a portare un suo libro. Il tono sommesso, quasi di scuse, sorprese l’interlocutore e chi li ascoltava per la giustificazione: “Nuocerebbe alla mia credibilità, alla mia immagine”. Casalegno gli rispose: “Noi non siamo il giornale della Fiat. Il giornale parla con la sua storia e con il suo lavoro. È il mio giornale, il nostro giornale: mio e dei colleghi che lo fanno tutti i giorni. È il giornale di un editore che ci garantisce piena libertà e di un direttore che porta il nome, il passato e le idee di Arrigo Levi”.
Nell’aggravarsi della violenza e dei rischi di destabilizzazione del Paese, proprio nel ’77 Bobbio si sarebbe convinto e avrebbe cautamente cominciato a scrivere per il nostro quotidiano. Ma dal giorno in cui Casalegno cadde ferito a morte sembrò volerlo ripagare afferrandone il testimone. E anche quando nell’84 fu nominato senatore a vita La Stampa sarebbe rimasta fino alla fine la prima tribuna della sua lezione politica e sociale.
di Alberto Sinigaglia, Presidente dell’Ordine dei Giornaliti del Piemonte
Leggi la storia di Carlo Casalegno qui.