Da cui è tratta la famosa citazione “Ma se non si è disposti a lottare, a che serve essere vivi?”. La pubblicazione in occasione del 40° anniversario dall’uccisione del giornalista, in collaborazione con la Fondazione Fava
OSSIGENO 5 gennaio 2024 – (a cura di Grazia Pia Attolini) – Giornalista, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, pittore. Giuseppe Fava, ucciso il 5 gennaio 1984 (leggi), è stato un intellettuale a tutto tondo. Le sue opere sono accomunate da una “forte tensione etica e da un’indagine costante dell’animo umano, oltre che da uno spiccato impegno civile”, racconta a Ossigeno Francesca Andreozzi, nipote del giornalista e presidente della Fondazione a lui intitolata. Oggi è possibile riscoprire scritti e opere grafiche attraverso il complesso documentario denominato Archivio di Giuseppe Fava (1927-1983), dichiarato di interesse culturale con decreto n. 71 del 27.06.2018, dalla Soprintendenza Archivistica della Sicilia – Archivio di Stato di Palermo (MiBACT).
In occasione del quarantesimo anniversario dall’uccisione, Ossigeno in collaborazione con la Fondazione Fava dedica un approfondimento all’archivio e pubblica su “Cercavano la verità”, il portale dedicato ai trenta cronisti italiani uccisi, un monologo del dramma “La violenza” (1970), da cui è tratta una delle più celebri citazioni di Fava: “Ma se non si è disposti a lottare, a che serve essere vivi?“.
L’ARCHIVIO FAVA. PERCORSI DI LETTURA E SCOPERTE SORPRENDENTI
testo di Francesca Andreozzi per Ossigeno – Al momento dell’omicidio di Giuseppe Fava, l’archivio era ubicato in prevalenza presso la sua abitazione e solo in parte nei due alloggi dei genitori, a Catania e Palazzolo Acreide (SR). Nella seconda metà degli anni ‘80 la figlia Elena raccolse e sistemò sommariamente tutto il materiale, riunendolo agli inizi degli anni ’90 presso la propria abitazione, a Gravina di Catania.
Dopo la costituzione della Fondazione Giuseppe Fava (2002) il materiale cominciò ad essere strutturato secondo la tipologia di contenuto. Tra il 2014 e il 2015 Elena Fava iniziò, insieme al marito Giuseppe M. Andreozzi, la revisione sistematica del materiale procedendo ad un’organizzazione più articolata in macro aggregazioni tematiche.
Dopo la scomparsa di Elena Fava (dicembre 2015), il marito ha proseguito l’analisi, la descrizione e l’organizzazione del fondo, che è stato dichiarato di interesse culturale dalla Soprintendenza archivistica della Sicilia con decreto n. 71 del 27 giugno 2018. Nell’aprile 2021, a fronte di una convenzione stipulata con la Direzione Generale Archivi, è stato avviato un lavoro di ordinamento e inventariazione dell’intero archivio, che è tuttora in corso.
Il fondo contiene documentazione prodotta da Giuseppe Fava tra i primi anni Trenta e il 1983, suddivisa per macro aggregazioni tematiche rispondenti alle sue principali attività, tutte accomunate da una forte tensione etica e da un’indagine costante dell’animo umano, oltre che da uno spiccato impegno civile.
Largamente rappresentata è l’attività giornalistica, riferita alla multiforme collaborazione con svariati periodici a carattere locale e nazionale. Ne offrono testimonianza i numerosi testi (manoscritti, dattiloscritti, ritagli a stampa) di articoli, note di costume, e racconti brevi, materiali preparatori, e stampe fotografiche attinenti alle più importanti inchieste condotte da Fava sulla Sicilia.
Altrettanto nutrita e composita è la serie relativa alla redazione delle opere teatrali di Fava. Si tratta prevalentemente di copioni, accompagnati quasi sempre dai documenti preparatori, quali bozze, appunti, scalette e brani vari.
Un altro nucleo di entità rilevante è costituito da documenti correlati all’attività di progettazione, stesura e pubblicazione di romanzi, racconti, raccolte di favolette o articoli già apparsi in forma sparsa sui giornali.
Ampiamente documentata risulta pure l’intensa attività grafica e pittorica di Fava, con la presenza di oltre 450 disegni di grandi e piccole dimensioni, realizzati su vari supporti e con tecniche differenti (matita, carboncino, inchiostro, china, spruzzo ecc.).
Arricchiscono ulteriormente l’archivio i documenti concernenti le attività di sceneggiatore per film e autore o regista di documentari e sceneggiati, e l’attività radiofonica.
L’archivio – che restituisce con efficacia le strette interconnessioni esistenti tra tutte queste attività – conserva anche un’aggregazione composta da diversi quaderni del periodo adolescenziale e universitario, contenenti componimenti e racconti.
Le “scoperte più sorprendenti” sono state molteplici, ma tra tutte voglio ricordare il ritrovamento del copione di “Vortice, la via della gloria” un dramma giovanile scritto nel 1945 e rappresentato a Palazzolo Acreide quello stesso anno da una filodrammatica universitaria creata e coordinata da Fava ventenne. Si aveva memoria della pièce, Fava stesso l’ha ricordata durante l’incontro con gli studenti di Palazzolo Acreide nel dicembre 1983, ma il testo era considerato perduto. Il testo originale è stato ritrovato nel febbraio 2020 e l’emozione di toccare dattiloscritti redatti oltre settantacinque anni fa è stata grande. Il testo è stato subito scansionato e successivamente conservato come preziosa reliquia in cartelle di carta anacida.
Un’altra “scoperta sorprendente” è stato il ritrovamento dei quaderni scolastici, del periodo adolescenziale cui accennavo prima, collocabili in un intervallo compreso tra il 1942 e il 1947. Contengono alcuni brevi componimenti poetici e un ampio numero di racconti, i cui soggetti ricorrenti sono i deboli, gli emarginati, la solitudine, la vecchiaia, la morte, la guerra e il dramma dei bombardamenti angloamericani in Sicilia orientale dell’estate 1943. È stupefacente scoprire la grande sensibilità d’animo, che già conosciamo da tutte le opere di Fava, presente già in giovane età. Tra i racconti desidero ricordare L’Innocente, vincitore di un concorso di scrittura e pubblicato nel 1947 sul quotidiano La Sicilia, due giorni prima della laurea di Fava.
L’archivio è organizzato in dieci serie (formazione, scritti giovanili, teatro, giornalismo, narrativa, disegni pittura e grafica, film, radio, progetti e raccolta giornali) e numerose sottoserie, è molto frequentato da studenti e ricercatori e aperto alla consultazione di tutti. Sul sito della fondazione c’è una sezione ad hoc dove l’utente può trovare gli elenchi del materiale presente e una breve sinossi sul contenuto di ogni documento.
Sulla medesima sezione un regolamento indica le procedure per l’approfondimento sui singoli documenti, realizzabile sia mediante visita diretta sia online.
LA VIOLENZA (1970)
Francesca Andreozzi e suo padre, Giuseppe M. Andreozzi, marito di Elena Fava, figlia del giornalista, hanno scelto per Ossigeno la pubblicazione di un brano tratto da “La violenza” (1970). Si tratta del monologo di Venero Alicata, giovane sindacalista ucciso, fatto da cui scaturisce il dramma che ha la struttura di un processo di mafia, per la costruzione del quale ci fu un importante ricerca e studio da parte dell’autore su processi verbali e interrogatori dell’epoca, ma come sottolinea lo stesso Giuseppe Fava: “La mafia è solo un pretesto teatrale, una macchina di scena per raccontare la tragedia delle creature umane nel nostro tempo: la violenza ovunque nel mondo, in tutte le sue forme: la sopraffazione, l’odio, l’ignoranza, la paura, il dolore, la corruzione”.
Così Francesca e Giuseppe M. Androzzi spiegano la scelta del brano: in primo luogo perché “da questo dramma sono tratte due delle frasi più famose di Fava, ma se non si è disposti a lottare, a che serve essere vivi? (successivamente tramandata oralmente, in assenza del testo scritto, nella più nota variante a che serve essere vivi, se non si ha il coraggio di lottare?), e quanto vale la vita di un uomo in questo paese?”.
Il secondo motivo è di carattere filologico e archivistico e riguarda proprio la figura di Venero Alicata, sindacalista ucciso evocato in scena come un deus ex machina. “I brani da cui sono tratte le frasi, – raccontano – la prima dal monologo di Venero Alicata, la seconda da uno degli interventi finali di sua madre, Rosalia Alicata, nel terzo atto, non fanno parte di tutti i copioni presenti in archivio. La seconda ciazione è riportata nel testo pubblicato da Flaccovio nel 1969 ma scompare nel copione denominato da Fava testo teatrale (che verosimilmente è il copione di scena) dove è invece presente il monologo di Venero. Si trattò di un colpo di scena come Fava lo definì in una lettera a Mario Giusti, direttore dello Stabile catanese, introdotto per accogliere nel cast dello spettacolo un giovanissimo Leo Gullotta. Nella trasposizione cinematografica Violenza quinto potere di Florestano Vancini (1972), l’evocazione di Venero Alicata è stata omessa perché per gli sceneggiatori del film (Fava non ne faceva parte) l’evocazione post mortem era già stata utilizzata dal regista Damiano Damiani nel film Confessione di un Commissario di polizia al Procuratore della Repubblica (1971). Scrive Fava agli sceneggiatori: La Violenza era stata scritta, messa in scena, rappresentata, e recensita su tutti i giornali italiani, molto prima che Damiani inventasse (o copiasse) il personaggio e che desse il primo colpo di manovella e dunque noi siamo legittimi padroni del personaggio”. “Mi sembra – sottoliena Francesca Abdrozzi – che queste chiose, oltre a delineare bene il carattere di Fava, sottolineino adeguatamente l’importanza del suo archivio”. GPA
LEGGI QUI IL BRANO TRATTO DA “LA VIOLENZA” (G. FAVA, 1970).