Lo stesso Ursic scrisse inoltre sempre su La Stampa (
leggi qui) anche un commosso ricordo di Isa due giorni dopo la sua morte a Milano. Un ricordo che non tralasciava di notare come la memoria del fotoreporter ucciso si fosse nel frattempo, proprio in Italia, già sbiadita.
“Isa se n’è andata in silenzio, proprio lei che a far rumore aveva dimostrato di essere bravissima. E il silenzio, è triste constatarlo, sarà anche il modo in cui verranno ricordate in Italia la sua lotta e la stessa figura di Fabio Polenghi”. “Isa è morta a Milano – prosegue -, dopo una malattia che l’aveva consumata negli ultimi mesi e di cui aveva informato solo chi le era più vicino. Eppure i primi a riportarlo sono stati dei giornalisti thailandesi, e io stesso ho faticato – senza essere sorpreso – a trasmettere l’importanza della notizia in Italia, dove più passava il tempo e più il nome di Polenghi veniva dimenticato dagli stessi giornalisti. Ogni volta che ho dovuto scriverne, dovevo sempre ricordare i fatti a chi di dovere con formule come “Sì, Polenghi, quel fotografo italiano ucciso a Bangkok nel 2010… la sorella ha portato avanti un’encomiabile lotta per la giustizia, ricordi?”.
Ma quella perdita di un coraggioso reporter, e di conseguenza il laborioso procedimento giudiziario che Isa era riuscita a portare avanti solo grazie alla sua insistenza, nella memoria collettiva italiana non sono mai entrati, per diversi motivi. La Thailandia è quel “Paese dei sorrisi” meta turistica di molti italiani, ma le divisioni politiche che l’attanagliano sono troppo distanti dall’Italia per lasciare un segno. Polenghi ha perso la vita durante una caotica situazione di guerriglia urbana, trovandosi nel mezzo della battaglia senza un giubbotto antiproiettile. E da freelance nomade, non aveva alle spalle un’organizzazione mediatica che ne alimentasse la memoria”. E Invece in Thailandia, a ogni viaggio che lei faceva per seguire il caso del fratello, “l’interesse dei media locali cresceva. Chi era questa ostinata donna dalla perenne zazzera bianca, in maglietta e pantaloni comodi anche nelle aule di tribunale, che sfidava l’oscura giustizia thailandese puntando il dito contro l’esercito? Le forze armate sotto accusa per mano di una straniera, in un Paese dove nessun militare è mai stato condannato per nessun reato, nonostante 18 colpi di stato e una lunga scia di sangue in nome della difesa della trinità “nazione, religione, monarchia”?
Ma in Italia, tutto questo arrivava col contagocce. Isa se n’era resa conto ben presto, rassegnandosi all’evidenza”. Nel frattempo però la britannica Bbc, invece, “aveva ricostruito la sua vicenda in un bellissimo documentario di un’ora. A Bangkok, Isa era ormai conosciuta da tutti i giornalisti che bazzicano attorno al Foreign Correspondent Club, dove aveva organizzato una mostra con le ultime immagini scattate dal fratello. Giornali e tv seguivano gli sviluppi della sua battaglia, incantati da tale perseveranza. Più di una volta, al capire che ero un giornalista italiano, qualche thailandese mi ha detto “ah, italiano come quel fotografo”. Ma per Elisabetta la battaglia che aveva condotto per il fratello, investendo tutte le sue energie e anche i suoi risparmi, con la sentenza che aveva stabilito che quel proiettile era partito dall’esercito era stata appunto vinta solo a metà.
“Da chi era partito il colpo – si chiedeva ancora Ursic – e perché? Chi era quell’uomo che – lo si vede in alcuni video – rubò la macchina fotografica di Polenghi non appena cadde a terra? Com’è che non si è mai riusciti a rintracciarlo?”
Ad ascoltare la sentenza in aula stavolta c’erano con lei anche la sorella Arianna e la madre Laura Chiorri, morta nel novembre 2020. “Dopo la sentenza la madre mi disse: «Mia figlia da quel giorno non vive che per suo fratello, non ha più una vita sua». Si era consumata, davvero. Ma era ancora capace di sorridere, così come aveva fatto quando le avevano consegnato in camera d’albergo l’urna con le ceneri di Fabio. Ero lì con lei, colpito dalla sua forza, e ricordo ancora nitidamente la scena. «Guarda come mi tocca riportare a casa mio fratello», mi disse. Senza piangere, e abbozzando un sorriso amaro. L’abbracciai forte per salutarla. Mentalmente, lo faccio anche ora”.