Il ricordo di Giulio, già presidente dell’ordine dei Giornalisti della Sicilia, a 45 anni dall’uccisione mafiosa del cronista del Giornale di Sicilia
OSSIGENO 26 gennaio 2024 – di Grazia Pia Attolini – “Mio padre era una persona innamorata della vita e del suo lavoro, instancabile, sempre col sorriso sulle labbra”. Inizia così il racconto di Giulio Francese, già presidente dell’Ordine dei giornalisti della Sicilia, in ricordo di suo padre Mario, cronista del Giornale di Sicilia, ucciso dalla mafia 45 anni fa, il 26 gennaio 1979.
In occasione di questo anniversario Ossigeno per l’informazione lo ha intervistato per tracciare il profilo umano e professionale del cronista che per primo svelò l’evoluzione egemonica della mafia corleonese negli anni ’70 e che per questo fu messo a tacere.
“La sua giornata – dice Giulio Francese – era divisa tra l’impegno al Palazzo di giustizia e il giornale; poi c’era anche la sua passione per gli animali: ogni giorno riusciva a trovare anche il tempo per andare nella nostra casetta di Aspra, dove aveva creato un mini-zoo, ed accudire così cani, gatti, uccelli, conigli e galline. E c’era anche l’orto. Era sempre disponibile con la gente, sapeva ascoltare e aiutava chiunque gli chiedesse aiuto. Al Palazzo di giustizia ogni giorno c’era una processione di gente umile che lo aspettava per chiedergli un consiglio, o di intercedere con i giudici per un proprio congiunto, di scrivergli una domanda per fare ottenere un permesso a familiari detenuti. Non si negava mai, trovava il tempo per tutto. Un uomo generoso”.
Come spesso è capitato anche ad altri cronisti uccisi e come accade ancora oggi a coloro che svelano verità pubbliche scomode, anche Mario Francese fu vittima di intimidazioni. “Qualcuna gli era arrivata direttamente, telefonate con minacce di morte sono arrivate anche a casa, un paio le ho raccolte io. Ma mio padre riusciva a fare evaporare le nostre paure con un sorriso. State tranquilli, diceva, faccio solo il mio dovere. Non mi succederà nulla. Non aveva scorta e quando il capo della Mobile di Palermo, Boris Giuliano, gliela propose lui disse di no”.
Anche Boris Giuliano fu ucciso dalla mafia quello stesso anno, qualche mese più tardi. In un articolo del 1996, Giuseppe Francese, un altro dei tre figli del giornalista, scrisse che partì proprio dal giornalista del Giornale di Sicilia l’escalation feroce dei delitti per mano dei Corleonesi che misero a tacere tutti coloro che provarono a mettere in luce i loro affari.
“L’attacco dei boss di Corleone su Palermo parte proprio in quel gennaio 1979 con la morte di mio padre. Mai c’erano stati nella storia della mafia tanti delitti eccellenti così ravvicinati. Dopo mio padre a cadere, a febbraio, è il segretario provinciale della Dc, Michele Reina. A luglio viene ucciso il capo della Mobile Boris Giuliano, a settembre il giudice Terranova, a gennaio 1980 il presidente della Regione Piersanti Mattarella. E’ il golpe di Cosa nostra, l’attacco alle istituzioni e come in ogni golpe si comincia con l’attacco alla stampa”.
Perché suo padre fu il primo?
“Dava fastidio ai corleonesi, ne aveva raccontato l’ascesa, le alleanze, gli affari e le nuove strategie quando tutti gli altri li snobbavano, considerandoli mafiosetti di campagna. I pentiti diranno poi che Mario Francese venne ucciso perché si era avvicinato alla verità. Eppure, la figura di mio padre è subito caduta nel dimenticatoio. Nei tanti libri degli anni ‘80 sulla mafia, l’impennata del fenomeno mafioso iniziata nel ’79 la si faceva cominciare dall’omicidio di Boris Giuliano. Su Mario Francese il silenzio assoluto. Saranno poi i giudici della Corte d’Assise nel 2001, con la loro sentenza, a mettere in chiaro le cose: Ricostruì prima di tutti – affermarono – i nuovi assetti di Cosa Nostra a metà degli anni Settanta. Fu il primo a capire l’evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia di Corleone. E sottolineano che la strategia eversiva di Cosa nostra avrebbe fatto un salto di qualità con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia. Cosa nostra conosceva bene il valore di questo cronista coraggioso che faceva nomi e cognomi e non mollava mai. Per questo lo ha fermato: per punirlo di ciò che aveva scritto, certo, ma soprattutto per impedirgli di scrivere ancora. Perché nei piani della nuova mafia di Corleone c’è la conquista di Palermo e quel cronista, spiegheranno i giudici, in quel momento è l’unico in grado di “decifrare”, prima ancora degli inquirenti, le nuove mosse dei corleonesi. Un omicidio preventivo, dunque. Ma anche un monito per tutti gli altri giornalisti: colpirne uno per educarne cento. Stessa filosofia del terrorismo, cui la nuova mafia sembrava ispirarsi”.
Per giungere alla giustizia per l’omicidio di Mario Francese, con il pieno riconoscimento della matrice e delle responsabilità di Cosa Nostra, ci vollero vent’anni e fu decisiva la determinazione dei suoi famigliari, in particolare del figlio Giuseppe, che non superò mai il trauma della barbara uccisione del padre e dopo la sentenza si tolse la vita.
Oggi la storia e l’esempio di Mario e Giuseppe Francese sono tramandati da Giulio che parla soprattutto ai più giovani.
“Mio padre rappresenta un modello di impegno professionale e civile. Quel modello di giornalismo di inchiesta era molto apprezzato. In molti negli anni mi hanno detto di essere stati lettori di mio padre, che seguivano con grande interesse le sue cronache e che anche dopo tanti anni non lo avevano dimenticato. Oggi il mondo è cambiato, è cambiato anche il giornalismo travolto da una crisi da cui non riesce a uscire e che ha perso agli occhi dei lettori gran parte della sua credibilità. Invece oggi più che mai c’è bisogno di buon giornalismo, di più giornalismo di inchiesta. E le regole sono quelle antiche, ma sempre attuali, che mio padre e altri colleghi hanno onorato fino in fondo, pagando il proprio impegno col sacrificio della vita”.
“Mio fratello Giuseppe va ricordato, invece, come un eroe moderno, un gigante fragile che non si è tirato indietro per amore di verità e giustizia. Aveva 12 anni quando è morto papà, una assenza pesante per lui, che crescendo lo ha cercato ovunque: nei racconti di chi lo aveva conosciuto, nelle foto, nei suoi articoli di cui ha fatto incetta e che ha trascritto al computer. Senza questo lavoro non ci sarebbe stata memoria dell’attività di Mario Francese. È stato il modo con cui Giuseppe ha voluto riabbracciare papà e tra quegli scritti ha cercato le ragioni di quell’omicidio ancora senza giustizia. Così si è dedicato al giornalismo perché gli altri giornalisti tacevano, ha cominciato a scrivere sui giornali, si è messo a studiare le carte, è diventato un esperto di mafia, ha cercato collegamenti con il presente e li ha trovati, ha spinto noi fratelli a non rassegnarci al silenzio ma a reagire, ci ha convinto a chiedere la riapertura dell’inchiesta. Il resto è storia: il processo, le dichiarazioni dei pentiti, la sentenza, mezza cupola condannata e finalmente verità e giustizia per Mario Francese dopo 22 anni. L’impegno di Giuseppe è stato fondamentale, ma la sua determinazione lo ha messo a dura prova, lo ha fiaccato nell’anima e nel 2002 ha deciso di lasciarci. Da quel momento è diventato il mio eroe e raccontare la sua storia e farlo conoscere ai giovani è il modo per esprimergli il mio amore e la mia riconoscenza. Il ragazzino fragile che si è battuto come un leone per il suo papà, un esempio per tanti ragazzi: devono capire cosa significa battersi per ideali come la verità e la giustizia, devono imparare a non lasciarsi sopraffare dalla rassegnazione, devono capire che, se vogliono, come Giuseppe, possono davvero cambiare le cose”.