La giornalista Luciana Borsatti, esperta di esteri, approfondisce gli sviluppi politici thailandesi, ripercorre la storia del giornalista, la mancata giustizia per la sua uccisione, ripropone il tema, sollevato più volte da Ossigeno, delle responsabilità di chi uccide i giornalisti in contesti di guerra e crisi

OSSIGENO 18 maggio 2023 – di Luciana Borsatti – Tredici anni fa moriva a Bangkok, a 48 anni, Fabio Polenghi: il fotoreporter milanese  (qui la sua storia) era stato colpito da un’arma da fuoco in dotazione all’esercito thailandese mentre documentava il tragico epilogo delle manifestazioni del movimento antigovernativo delle “camicie rosse”, definitivamente represse dopo che da due mesi invocavano elezioni anticipate. Ma l’anniversario della sua morte – avvenuta il 19 maggio 2010, e per la quale non è mai stata fatta giustizia nonostante un primo processo a Bangkok avesse stabilito nel 2014 da quale parte proveniva quel proiettile fatale – coincide quest’anno con una nuova fase di speranza nella possibilità di un cambiamento per il Paese: con la vittoria elettorale cioè delle opposizioni sulle forze monarchiche e militari che da decenni governano, con pugno di ferro e colpi di stato, la Thailandia. Alle elezioni generali del 14  maggio scorso, infatti, i partiti d’opposizione Move Forward e Pheu Thai, guadagnandosi quasi il 60% dei seggi, hanno vinto nettamente sulla coalizione in carica, ferma a circa il 15% –  anche se al momento in cui scriviamo non è detto che questi numeri permettano loro, visto anche l’ordinamento istituzionale, di assicurarsi il governo. Ma per gli osservatori si è trattato di un vero terremoto politico nel Paese del sud-est asiatico: il grande vincitore al voto è stato infatti il Move Forward, partito che chiede cambiamenti radicali e riforme alle istituzioni, all’economia, ai militari e alle leggi che proteggono la monarchia. Collegato al movimento studentesco del 2020 e sostenuto da elettori giovani e delle aree urbane è guidato da Pita Limjaroenrat, 42 anni, che ha definito la vittoria delle opposizioni “l’alba di un nuovo giorno”.

Ucciso nella repressione delle “camicie rosse”, Fabio avrebbe apprezzato i loro eredi

 Anche nel 2010 c’era una speranza di cambiamento, nutrita da quelle “camicie rosse” che per due mesi avevano occupato il centro della capitale e che, a differenza degli elettori del partito vincente di oggi, provenivano prevalentemente dalle aree rurali: speranza soffocata nel sangue dai militari con un totale di una novantina di morti, fra i quali Fabio e un cameraman giapponese, Hiro Muramoto https://cpj.org/data/people/hiro-muramoto/, e circa 2mila feriti, fra i quali alcuni altri reporter stranieri. Gli oppositori di oggi

“non sono gli stessi che protestavano nel 2010, ma lo spirito di rinnovamento pro-democrazia e anti-esercito sarebbe sicuramente piaciuto a Fabio”.

A dirlo è Alessandro Ursic, giornalista free-lance e collaboratore dell’Agenzia Ansa, che all’epoca aveva seguito da vicino la tragica vicenda del fotoreporter milanese e il successivo processo penale.

“Questi del Move Forward – aggiunge – incarnano la nuova mentalità dei giovani, ma hanno fatto breccia anche in altre fasce d’età”.  Tra le loro richieste, prosegue, ci sono la riduzione dei poteri dell’esercito, in modo che sia subordinato al governo eletto e non resti un potere indipendente che quando vuole prende il potere, e controlla canali televisivi o presenze nei board aziendali.

“Considerando il ruolo dell’esercito e come in sostanza è rimasto intoccabile anche nel processo per Fabio Polenghi, nonostante la perseveranza di Elisabetta – dice ancora Ursic, riferendosi alla sorella di Fabio che con grande tenacia aveva agito perché vi fosse una verità processuale – il collegamento c’è tutto. Si potrebbe anche azzardare l’idea che, in fondo, Elisabetta è stata una persona che ha dato il “la” ai thailandesi con il suo esempio”.

La battaglia giudiziaria della sorella imprime Fabio nella memoria più a Bangkok che in Italia 

Elisabetta, familiarmente chiamata “Isa” e fotografa lei stessa, aveva infatti avuto un ruolo fondamentale nel tentativo di individuare i responsabili dell’uccisione del fotoreporter e proprio per questo ha lasciato un segno anche nella memoria di molti thailandesi. Per ottenere giustizia dalla magistratura  locale si era recata infatti una decina di volte in Thailandia, fino a quella sentenza del 29 maggio 2014 in cui la Corte stabiliva che a uccidere Fabio, con un proiettile ad alta velocità che lo aveva raggiunto alla schiena trafiggendogli il cuore, era stato un M16 in dotazione all’esercito. ”Sono contenta a metà – dichiarava allora Elisabetta all’Ansa,  nell’aula della Corte -. Non è una sentenza che mi metta il cuore in pace, sembra voler spostare più in là la soluzione del problema”. ”Il verdetto e’ comunque un primo passo verso l’interruzione del circolo di impunità che caratterizza la Thailandia”, osservava Shawn Crispin, rappresentante locale del Committee to Protect Journalists (Cpj). Anche la madre di Fabio, Laura Chiorri, per la prima volta a Bangkok dalla morte del figlio, cercava di vedere positivo: ”Vorrei però sapere chi ha ucciso Fabio, e soprattutto chi ha ordinato di sparare”.  L’inchiesta aveva già chiamato in causa il primo ministro e il suo vice di allora come coloro che avevano dato ordine di reprimere la protesta anche con proiettili veri. Ma perché ciò avesse seguito serviva l’apertura di un’altra inchiesta, con un ulteriore e gravoso impegno della famiglia.  Isa non avrebbe probabilmente mollato, se un tumore non l’avesse portata via solo un anno dopo. E il venir meno della sua presenza contribuì certo al fatto che l’omicidio, nonostante il suo dispendio di energie e di risorse anche economiche, non sia tornato all’esame in un secondo processo e sia rimasto impunito.  “Quella perdita di un coraggioso reporter, e di conseguenza il laborioso procedimento giudiziario che Isa era riuscita a portare avanti solo grazie alla sua insistenza – scriveva Ursic su La Stampa in un commosso ricordo di lei – nella memoria collettiva italiana non sono mai entrati, per diversi motivi”. La Thailandia è rimasta la meta turistica di molti italiani, e Fabio, “da freelance nomade – sottolineava -, non aveva alle spalle un’organizzazione mediatica che ne alimentasse la memoria”.

Sono infatti ancora pochi a ricordarlo, nonostante la notizia della sua uccisione fosse stata accolta con dolore e costernazione da molte autorità italiane di allora: dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al sindaco di Milano Letizia Moratti, dal presidente della Camera Gianfranco Fini a quello del Senato Renato Schifani, dal presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni al segretario della Federazione Nazionale della Stampa (Fnsi), Franco Siddi, e all’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Il quale aveva denunciato la mancanza di tutele e garanzie per tanti fotoreporter che fanno da “testimoni del nostro tempo nelle zone più calde del pianeta”. Fabio infatti aveva coperto molte altre aree di crisi internazionali  che potevano mettere a rischio la sua incolumità, ma da freelance non godeva di assicurazione. A parlare della sua morte erano stati anche il presidente del Parlamento Europeo Jerzy Buzek e – da Parigi dove in passato Fabio aveva lavorato per la moda – Reporters sans Frontières. Alla memoria di Fabio sono stati inoltre conferiti nel 2010 il Premio Enzo Baldoni e reporter caduti sui fronti di guerra, istituito dalla Provincia di Milano, e una menzione del Premio Pace della Giunta regionale. Il suo nome è inscritto, con quello di altri 56 giornalisti uccisi lo stesso anno, in una stele del comune francese di Bayeux, in Normandia. Figura inoltre nell’elenco dei giornalisti uccisi nel mondo del Journalists Memorial al Newseum di Washington e nel Pannello della Memoria di Ossigeno per l’Informazione.

Senza esito la richiesta di un riconoscimento in Italia con la legge sui reati intenzionali violenti

Tuttavia l’eco della sua morte si è spenta molto presto, e in questi anni è rimasta senza esito anche la richiesta, avanzata dal legale della famiglia Polenghi, di un risarcimento ai familiari in forza delle norme sulle vittime dei reati di tipo mafioso e di quelli intenzionali violenti. La domanda era stata avviata dalla madre (nel frattempo deceduta) circa un anno dopo la morte di Elisabetta, ma in una lettera dell’agosto 2022 la Prefettura di Milano ha comunicato all’altra figlia Arianna, rimasta l’unica erede, che era stata respinta per “difetto di legittimazione”.  Il Commissario straordinario del governo competente per questa materia rilevava fra l’altro che non era possibile accedere al fondo perché l’omicidio di Fabio era avvenuto in territorio extraeuropeo, circostanza non prevista dalla stessa legge.

La risposta da parte dello Stato è stata accolta con amarezza da Arianna Polenghi, che risiede all’estero e in questi anni ha dovuto convivere con il lutto per le morti dei due fratelli e successivamente anche della madre, già vedova.

“E’ triste pensare – commenta per e-mail con Ossigeno per l’Informazione – che allo Stato italiano non importi niente se un fotoreporter è stato ucciso ingiustamente da un esercito considerato amico!”.

“La richiesta di giustizia per Fabio riguarda la libertà di informazione e la democrazia”

Eppure la vicenda di Fabio non è soltanto personale, ma riguarda il tema più ampio della libertà di informazione, e dunque della tutela dei giornalisti, come condizione necessaria alla democrazia. Ne era ben consapevole proprio Elisabetta Polenghi, che sul sito dedicato al fratello – e su cui campeggia la scritta Freedom of information guarantees human rights – aveva sottolineato: “Non si tratta solo di Fabio, si tratta di affermare dei diritti umani fondamentali, la vita, la libertà di informazione, in difesa della democrazia. Se accettiamo con facilità che i reporter possano essere uccisi senza pretendere chiarezza, diventiamo complici di tutte le violazioni che quotidianamente vengono commesse”. Anche sorretta da questa convinzione Isa aveva sostenuto il progetto, già pronto nel 2013 grazie a uno studio di architettura milanese, di costruire, proprio a Bangkok, un monumento per la libertà di informazione e la tutela dei diritti umani, in memoria non solo di Fabio ma anche di tutti i caduti sui fronti di guerra e in contesti difficili. Un portale sull’acqua, dedicato anche a tutte le altre vittime degli scontri in cui perse la vita il fratello: un progetto  sostenuto dall’allora governo thailandese guidato da Yingluck Shinawatra, sorella dell’ex premier Thaksin deposto da un colpo di stato nel 2006 e punto di riferimento, benché in esilio, delle “camicie rosse” – oltre che fondatore del partito Pheu Thai il cui erede è il secondo vincitore alle elezioni del 14 maggio 2023.. Ma anche questo è rimasto un sogno nel cassetto, mentre la premier sarebbe stata destituita nel 2014 dalla Corte Costituzionale e, pochi mesi dopo, sarebbe avvenuto uno dei tanti golpe militari (una ventina, due negli ultimi due decenni) che hanno accompagnato la storia politica della Thailandia.

Anche di questo progetto si parla su questo portale nel focus Isa Polenghi, l’italiana di Bangkok. Qui si ricorda tra l’altro come, paradossalmente, man mano che l’interesse per la vicenda di Fabio scemava in Italia cresceva invece proprio in Thailandia, soprattutto grazie alla perseveranza della sorella nel chiedere una verità giudiziaria: una donna straniera che metteva sotto accusa le forze armate, in un Paese dove queste avevano sempre goduto di impunità. La memoria di Fabio rimaneva impressa, sempre anche grazie all’attività di Isa, anche tra i corrispondenti stranieri a Bangkok, ed è stata preservata da un documentario della Bbc. Ma la battaglia giudiziaria per rendere giustizia a Fabio, benché vinta soltanto a metà, continua anche oggi a riproporre il grande interrogativo: può la morte di un giornalista in contesti di crisi e di guerra essere derubricato a effetto collaterale di tali conflitti, che esenti da ogni responsabilità penale personale gli esecutori materiali e i loro più alti in grado? Possono insomma le guerre e gli scontri di piazza cancellare ogni responsabilità giudiziaria di chi uccide civili e giornalisti disarmati?

Dalla Thailandia all’Ucraina, le responsabilità di chi uccide i giornalisti in contesti di guerra e crisi

E’ la stessa domanda posta da Ossigeno per l’Informazione nel suo dossier su Andrea Rocchelli (leggi qui), il giovane fotoreporter ucciso nell’Ucraina Orientale il 24 maggio 2014: il presunto responsabile della sua morte, un cittadino italo-ucraino andato a combattere nel Paese di origine, è stato prima condannato a 24 anni di carcere dalla Corte di Assise di Pavia, poi assolto in appello a Milano. Rocchelli e il suo collega russo Andrej Mironov aprono la lista dei 27 giornalisti e operatori dell’informazione uccisi nel conflitto tra Russia e Ucraina dal 2014, secondo il CPJ, al momento in cui scriviamo; 12 fra questi dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022. Una lista che continua a riproporre sempre più drammaticamente – ai giudici, ai governi, alle organizzazioni nazionali e internazionali dei giornalisti – lo stesso quesito ancora irrisolto. E quello, in particolare in Italia e in relazione alle coperture assicurative e all’indennizzo mancato nel caso di Polenghi, delle tutele che dovrebbero essere garantite a tutti i colleghi, anche freelance, che scelgono di lavorare per un’informazione libera e completa in pericolosi contesti di crisi e di guerra.

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