Fabio Polenghi aveva 48 anni quando fu ucciso in Thailandia. Era nato a Monza nel 1962 e “aveva ben presto scelto il mondo come casa e la fotografia come un caleidoscopio per raccontarne le mille realtà diverse: dalla moda al reportage nei luoghi dimenticati”: con queste parole lo ricorda il sito dedicato alla sua memoria e voluto in particolare dalla sorella Elisabetta. Fabio fu ucciso il 19 maggio del 2010 a Bangkok, colpito da un proiettile in dotazione all’esercito thailandese. Come fanno i fotoreporter freelance più coraggiosi, stava documentando, stando insieme ai più deboli, la fase finale delle manifestazioni di protesta del movimento antigovernativo delle “Camicie rosse”, che da due mesi invocavano elezioni anticipate.
Quel 19 maggio, l’esercito pose con un blitz sanguinoso la parola fine a settimane di scontri che avevano già causato decine di morti e di feriti da entrambe le parti. Diede infatti l’assalto finale al luogo dove i manifestanti erano accampati, nel centro della Capitale. Fabio cadde colpito al cuore da un proiettile e morì durante il trasporto, improvvisato su una motocicletta, in ospedale. La stessa mattina vennero feriti anche altri tre giornalisti, un olandese, un canadese ed un americano.
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(Aggiornamento di Luciana Borsatti – 3 maggio 2020)
- 2010 – Fabio Polenghi venne ucciso il 19 maggio, l’ultimo giorno della mobilitazione della “camicie rosse” cominciata con una grande manifestazione il 14 marzo, quando queste, in decine di migliaia e in gran parte provenienti dal nord-est rurale, avevano occupato il centro di Bangkok per chiedere elezioni anticipate immediate al governo di Abhisit Vejjajiva. Questi invece avrebbe dato maggiori poteri all’esercito, proclamando lo stato di emergenza per disperdere la protesta. In quei due mesi la tensione si era accumulata e dopo le prime settimane erano anche cominciati gli scontri di piazza tra manifestanti e forze dell’ordine, con morti e feriti da ambo le parti. I “rossi” che occupavano il centro di Bangkok, e in particolare il suo cuore commerciale nel distretto di Ratchaprasong, venivano visti con insofferenza dalle classi medio-alte della Capitale, vicine all’esercito e alla monarchia. I manifestanti erano invece seguaci dell’ex premier Thaksin Shinawatra, il magnate che aveva vinto le elezioni e governato dal 2001 grazie alle sue politiche di distribuzione del reddito verso le campagne: ora si trovava in auto-esilio dopo il golpe che lo aveva deposto nel 2006, e una condanna per corruzione arrivata due anni dopo. I leader del movimento, che erano in diretto contatto con Thaksin, non riuscirono a trovare un accordo con il governo che aveva proposto il voto entro sei mesi e cominciarono le violenze. Fra le prime 26 vittime, il 10 aprile, un cameraman giapponese della Reuters, Hiro Muramoto, 43 anni, trapassato da un proiettile al petto mentre seguiva gli scontri tra esercito e manifestanti. Misteriose ”camicie nere” mascherate e armate furono allora viste aggirarsi nei luoghi degli scontri, probabili provocatori dall’incerta affiliazione, cui l’esercito avrebbe poi sempre attribuito la responsabilità delle vittime. Verso la metà di maggio l’esercito giunse a circondare l’esteso accampamento dei “rossi”. All’alba del 19, con i carri armati che demolivano le barricate, ci fu l’assalto finale in cui trovò la morte Fabio, coinvolto nella fuga dei rivoltosi mentre i soldati sparavano. La notizia della sua uccisione arriva poco prima di mezzogiorno, circa due ore dopo giungerà quella della resa dei leader della protesta. Ma gli irriducibili dei “rossi” non cedono e gli incidenti continuano, anche in altre zone del Paese. A Bangkok sono decine gli edifici dati alle fiamme, tra cui il Central World, enorme centro commerciale dove il rogo dura per ore provocando anche un crollo, lo storico teatro Siam e il palazzo della Borsa. Decretato il coprifuoco nella capitale e in una ventina di province. La notizia dell’uccisione di Fabio crea sgomento e cordoglio in Italia. Il fotoreporter è caduto, dice il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con il coraggio e la passione per la professione che fanno onore al giornalismo come missione di verità e di libertà”. E aggiunge di essere in contatto con la Farnesina “affinché siano rigorosamente accertate” circostanze e responsabilità dei fatti. Reazioni anche dal Presidente del Parlamento Europeo Jerzy Buzek, dal sindaco di Milano Letizia Moratti, dal Presidente della Camera Gianfranco Fini e da quello del Senato Renato Schifani, dal presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. La tragica morte di Fabio Polenghi – dice il segretario della Federazione Nazionale della Stampa (Fnsi), Franco Siddi- è l’ultima dei cronisti invisibili che continuano a portare luce a fatti del mondo che in tanti vorrebbero oscurare”. Ma la passione anche civile che Polenghi ha pagato con la vita non è riconosciuta, osserva, “come sempre più spesso capita ai freelance, per i sacrifici che essa comporta”. “Era un professionista scrupoloso e prudente, con la curiosità e il talento dei grandi giornalisti”, afferma l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia. Aggiungendo però che in Italia “c’è ancora poca considerazione” per il lavoro dei tanti fotoreporter che fanno da “testimoni del nostro tempo nelle zone più calde del pianeta” e ai quali deve essere riconosciuta “la dignità professionale di un lavoro che ha bisogno anche di tutele e garanzie”. Da Parigi – dove Fabio aveva esposto più volte il suo lavoro, alla Cité des Sciences et de l’Industrie e all’’Expo du livre – Reporters Without Borders ricorda che Polenghi è il dodicesimo professionista dell’informazione morto sul campo nel 2010.>
- 2012 – Il 17 settembre, presso la Corte penale di Bangkok Sud, comincia il processo penale per l’uccisione di Fabio Polenghi. Al termine delle sue indagini, la polizia aveva stabilito che ad ucciderlo era stato “un colpo di arma di fuoco delle autorità in servizio”. Nel dibattimento una ventina di testimoni confermano che il proiettile fatale arrivò proprio dalla parte dell’esercito. L’ultimo teste, il giornalista olandese Michel Maas che sarebbe stato ferito lui stesso, riferisce di aver visto nel teleobiettivo l’avanzata dei soldati verso il gruppo di reporter che seguiva la ritirata dei ”rossi”. Escluso invece un testimone chiave, un giornalista autore di un video in cui si vede come Polenghi e altri fossero in fuga dall’esercito.
- 2013 – La sentenza della Corte, il 29 maggio, stabilisce che ad uccidere Fabio, con un proiettile ad alta velocità che lo raggiunse alla schiena trafiggendogli il cuore, fu un M16 in dotazione all’esercito. ”Sono contenta a metà – dichiara allora all’Agenzia Ansa Elisabetta, nell’aula della Corte penale -. Non è una sentenza che mi metta il cuore in pace, sembra voler spostare più in là la soluzione del problema”. E si mostra intenzionata ad andare avanti nella ricerca della verità, nonostante le ingenti spese già sostenute nei viaggi in Thailandia. ”Il verdetto e’ comunque un primo passo verso l’interruzione del circolo di impunità che caratterizza la Thailandia”, dichiara Shawn Crispin, rappresentante locale del Committee to Protect Journalists (Cpj). Anche la madre Laura Chiorri, per la prima volta a Bangkok dalla morte del figlio, cerca di vedere positivo: ”Vorrei però sapere chi ha ucciso Fabio, e soprattutto chi ha ordinato di sparare”. Sulla vicenda restano aperti anche altri interrogativi: per esempio, chi fosse l’uomo dai tratti orientali che ha subito raggiunto Fabio riverso sull’asfalto – il casco blu da motociclista con la scritta Press ancora in testa – e gli ha portato via la macchina fotografica con i suoi ultimi scatti. Il processo si svolge mentre è capo del governo Yingluck Shinawatra, sorella dell’ex premier in esilio Thaksin, entrata in carica dopo il successo del suo partito nelle elezioni del 3 luglio 2011. Il 22 maggio 2014 vi sarebbe stato un nuovo colpo di stato militare guidato dal generale Prayut Chan-o-cha, poi divenuto primo ministro e riconfermato al potere in un governo di coalizione dopo le elezioni del 2019.
- 2014 – Nel frattempo, con la morte di Elisabetta o “Isa” il 28 aprile 2014, se ne sarebbe andata un po’ anche la memoria del fratello. “Quella perdita di un coraggioso reporter, e di conseguenza il laborioso procedimento giudiziario che Isa era riuscita a portare avanti solo grazie alla sua insistenza – scriveva su La Stampa in un commosso ricordo di lei il giornalista Alessandro Ursic, che da Bangkok aveva seguito tutta la vicenda per l’Ansa – nella memoria collettiva italiana non sono mai entrati, per diversi motivi. La Thailandia è quel “Paese dei sorrisi” meta turistica di molti italiani, ma le divisioni politiche che l’attanagliano sono troppo distanti dall’Italia per lasciare un segno. Polenghi ha perso la vita durante una caotica situazione di guerriglia urbana, trovandosi nel mezzo della battaglia senza un giubbotto antiproiettile. E da freelance nomade, non aveva alle spalle un’organizzazione mediatica che ne alimentasse la memoria”.